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Italiano > Inglese: Romanzo di genere urban-fantascientifico-fantasy-thriller di circa 125.670 parole

Romanzo di genere urban-fantascientifico-fantasy-thriller di circa 400 pagine destinato ad un pubblico da 11 a 110 anni.

Parole totali circa 125.670 (conteggio effettuato da word che tiene conto anche dei titoli e numeri dei capitoli).

Testo contenente sporadicamente termini tecnici e/o etnici o parole inventate intraducibili.



Esempio di testo:
(estratto dal quarto capitolo)

AVEVA viaggiato per molti giorni e per guadagnare tempo non si era fermato che lo stretto necessario per rifocillarsi. Il cibo scarseggiava nella fredda landa ghiacciata, ma qualche volta era stato fortunato ed aveva raccolto le bacche da piante di crestafoglia che crescevano spontanee. Il sapore non era particolarmente gradevole. Con quella pianta si facevano mille altre cose e l’uso alimentare era secondario. Ma erano comunque nutrienti e dopotutto non poteva permettersi il lusso di fare lo schizzinoso. Quando il raccolto era ricco, conservava molte bacche come riserva, ma il più delle volte ciò che trovava era talmente scarso da essere appena sufficiente per sedare il proprio appetito. Certo era abituato ai lunghi digiuni, ma l’intenso impiego di energie necessarie per spostarsi continuamente in aggiunta al freddo tenace, lo sfiniva ogni giorno. C’era anche da considerare il fatto che non si era del tutto abituato alla nuova condizione fisica, anche se il suo corpo rispondeva con vigore alle sollecitazioni cui il suo intento lo sottoponevano. Inoltre, gli ambienti che aveva deciso di sfidare erano tra i più difficili ed inospitali del pianeta.
Quando raggiunse le Grandi Montagne, affrontò infinite distese di neve che si aprivano a ventaglio in lunghissime e silenziose gole circondate da picchi aguzzi. Superò quei massicci, oltrepassò valli e ghiacciai e camminò sul pack rischiando più di una volta di essere inghiottito da invisibili specchi d’acqua o dai torrenti impetuosi sottostanti. Se la vide brutta anche con dirupi scoscesi e passaggi esposti su precipizi mozzafiato che non era attrezzato per scalare. Poi, quando finalmente lasciò le montagne e giunse nelle terre degli Ural, si trovò in un immenso acrocoro dal quale scaturivano distese di un verde smeraldo dove la vegetazione era ricca e profumata.
La taiga aveva lasciato il posto ad un oasi rigogliosa nella quale la boscaglia più ricca circondava l’ansa protetta di un fiume. Al culmine dell’ansa dove il fiume si rilassava allargandosi in una spiaggia sabbiosa a forma di falce di luna, c’era un accampamento nomade.
Vi si incamminò.
Si trattava di gente senza nome che procedeva verso un futuro incerto e proveniva da un passato dimenticato, ma che lo accolse ugualmente come fosse stato il figliol prodigo. Nei tre giorni che trascorse in loro compagnia ebbe modo di conoscerli meglio e di condividere cibo e acqua. In cambio di questa ospitalità li aveva confortati con la propria scienza ed aveva risolto alcuni problemi apparentemente insormontabili per gente tanto semplice: rendere più bevibile l’acqua dei ruscelli, curare alcune malattie, cacciare gli spiriti maligni e proteggere il sonno delle donne e dei bambini dagli incubi che il Sentiero dei Sogni talvolta emanava.
Imparò nuove poesie, nuove canzoni e scambiò con i cantastorie del villaggio lunghe narrazioni di battaglie, di avventure, di amori e di pace ritrovata. Ma per Od-Annesh, il capovillaggio, un vecchio canuto che si reggeva a fatica sulle proprie gambe, aveva riservato il dono più importante. Gli aveva insegnato ad ascoltare le parole della natura per prevedere l’approssimarsi di una tempesta o intuire il momento migliore per andare a caccia, seminare i campi o mietere il raccolto.
Od-Annesh fu talmente grato a Grekor di questi suoi doni da domandargli che cosa volesse in cambio e lui fece la sua scelta indicando un cristallo di forma oculare, quasi sferico, una pietra gialla di quarzo citrino perfettamente trasparente che il capovillaggio teneva nella propria capanna. Egli raccontò di averla ritrovata durante una battuta di caccia in giovane età. Era stata sepolta per secoli nel deposito alluvionale di una vasta pianura e lui ci era praticamente inciampato. L’acrocoro ben di rado regalava simili gemme e Od-Annesh si convinse che fosse un segno divino. Non aveva mai saputo a che cosa servisse quella pietra né chi l’avesse intagliata, trovata, posseduta e persa, ma quando vide che Grekor restò tanto affascinato dalla storia del suo ritrovamento da non riuscire più a staccare gli occhi da essa, Od-Annesh capì che presto o tardi avrebbe dovuto separarsene.
E la cosa non lo entusiasmava affatto.
«Quella pietra mi è preziosa come fosse mia figlia» disse il vecchio capovillaggio.
«Allora la porterò con me come se lo fosse e la ricondurrò intatta a te, quando tornerò a casa».
Il vecchio sorrise, poi si fece triste e poi sorrise ancora. Infine, convinto che fosse la cosa giusta, lasciò cadere la pietra dalle proprie mani in quelle di Grekor.
«Da dove vieni?» domandò Od-Annesh.
Grekor rifletté a lungo. Ascoltò il sibilo del vento ed inalò l’aria per carpirne gli aromi mentre rigirava tra le mani la splendida pietra gialla.
«Non lo so ancora» rispose infine.
«Come sarebbe a dire?» strabuzzò il vecchio. «Sai dove stai andando, sai che la tua destinazione è quella che tu chiami la Città di Metallo, ma non sai ancora da dove vieni?»
«E non è forse così per tutti?» rispose. Strinse in pugno la pietra ed uscì dalla capanna di Od-Annesh con lo stesso spirito con cui aveva lasciato il proprio villaggio: si voltò un’ultima volta verso di lui poi si incamminò per la propria strada.
Ritornò a percorrere terre senza nome, un tempo abitate ed ora completamente deserte. Rovine di antiche città erano visibili in lontananza, ma la sua avventura non era in quella direzione, bensì verso la lontana e fitta coltre di nubi che da qualche giorno vedeva offuscare l’orizzonte. Sentiva che quelle nubi lo chiamavano e che il loro richiamo diveniva ogni istante più forte.
A mano a mano che si avvicinava la coperta nera del cielo si faceva più grande ed opprimente. Nonostante il grigiore ispirasse profonda tristezza però, fu quasi felice di essere finalmente sul punto di arrivare a destinazione. In realtà sapeva che il suo viaggio era solo agli inizi e che una volta giunto alla Città di Metallo avrebbe dovuto fare tante cose, prima fra tutte, mettersi sulle tracce del ragazzino che aveva sognato.
Nel corso delle ultime notti Grekor lo aveva visto sempre più spesso nei propri sogni. Non fisicamente certo, cosa che peraltro gli avrebbe permesso di identificarlo, ma ne sentiva più che mai la crescente angoscia. Sentiva che avrebbe dovuto confrontarsi con lui e queste sensazioni che lo raggiungevano ormai in ogni momento, si palesavano ai suoi occhi interiori come vibrazioni, tremolii di montagne eccellenti.
Allora cercava di riequilibrarsi con l’energia attiva dell’universo ammirando l’alba o annusando il vento, ma in quei lunghi momenti di riflessione pensava e ripensava alla discussione avuta con Aruja nella grande capanna avvolta dal fumo denso degli incensi. Aveva avuto modo di ritornare sulla propria caparbietà, sulla propria insistenza e si era domandato se non stesse già iniziando a pagare il prezzo di quella testardaggine. Dopotutto, che male c’era a lasciare le cose così come stavano, a consentire che i flussi del destino seguitassero a percorrere le correnti del tempo? Aruja aveva ragione? Aruja aveva torto? E davvero niente di ciò che stava ad ovest poteva interessare uno shaman come lui? Niente in quella grande città di metallo e dai metallici suoni poteva contribuire in alcun modo all’evoluzione di un onironauta Sifri o far crescere o rassicurare la comunità da cui veniva. Davvero la sua domanda valeva il prezzo dell’esilio? Davvero il suo esilio valeva il prezzo della sua vita? Davvero la sua vita valeva il prezzo di quella del ragazzo?
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